Episode 4: # 3- Il Corpo e le sue Storie - L'abito non fa...l'emiro
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Si è da poca conclusa una delle edizioni più politicizzate della storia dei mondiali di calcio. Spesso lo sport vuole proporsi come uno spazio libero dalla politica, lontano da qualsiasi influenza esterna che non sia solo l’aspetto tecnico o il godimento dello spettacolo offerto dagli atleti. Ma la storia ci insegna che la politica entra con una certa facilità nello sport, tanto da essere utilizzato come uno strumento con cui fare politica. Una piattaforma da cui far partire rivendicazioni, messaggi, boicottaggi, perfino guerre. Kapuscinski nel suo Libro La prima guerra del Football e altre guerre dei poveri ci racconta del conflitto armato tra El Salvador e l'Honduras scoppiato nel 1969 proprio come conseguenza di un aspro confronto a livello calcistico, avvenuto prima sui campi da gioco tra le due rappresentative nazionali, per poi spostarsi sui campi di battaglia. Gli eventi sportivi di carattere internazionale danno inoltre un enorme spazio di visibilità politica. Aspetto ben compreso dall’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani il quale ha voluto utilizzare i mondiali di calcio come un potente strumento di soft power. Tanto da volerli organizzare a tutti i costi, e con ogni mezzo possibile. Per Soft power intendiamo quell'abilità nella creazione del consenso attraverso la persuasione e non la coercizione. E il Qatar ha un estremo bisogno di creare consenso, di accreditarsi a livello internazionale. Il potenziale d'attrazione di una nazione, infatti, non è rappresentato esclusivamente dalla sua forza economica o militare, ma si alimenta attraverso la diffusione della propria cultura e dei propri valori di riferimento. A ben guardare i mondiali di calcio appena conclusi sono stati concepiti come un’enorme vetrina in cui la cultura, i valori di riferimento, le tradizioni del Qatar sono state messe in splendida mostra.
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